A tu per tu con U.T. Gandhi, percussionista e compositore apprezzato a livello internazionale, ma dalle radici ben piantate in Friuli e, in particolare, a Osoppo, dove torna felice dopo ogni concerto e tournée

È un caldissimo pomeriggio d’estate quando, puntualissimo, entra a Casa UILDM Umberto Trombetta, in arte UT Gandhi. 

Nato nel 1960 ha al suo attivo ha una carriera con una quindicina di album personali e innumerevoli collaborazioni, concerti e spettacoli in Italia e nel mondo. 

La passione per la musica e la capacità di ascoltare lo hanno portato a diventare uno dei percussionisti più apprezzati a livello internazionale. 

Dalla nostra chiacchierata, però, emergono soprattutto la sua sensibilità e umiltà, il suo impegno sociale e la sua scelta di esternare emozioni, di comunicare e testimoniare attraverso la musica. Un linguaggio che non necessita di traduzione per farsi capire e con il quale ha saputo narrare anche un evento tragico come il terremoto del 1976, che ha segnato la sua vita come quella di tutti i friulani e che ha completamente distrutto Osoppo, dove Gandhi viveva e vive tuttora. 

Quando e come è nata la sua passione per le percussioni?
Ho cominciato da bambino ad usare i mestoli le padelle di mia mamma. È stata una cosa naturale. Non ho fatto una scuola di percussioni, se non molto dopo, quando ero grande. Sono sempre stato un ascoltatore di musica. Anche i miei genitori ascoltavano molta musica. Da ragazzo ho cominciato ad inventarmi dei set con i fustini del detersivo e secchi. Poi, a otto - nove anni, mi fu comprata una batteria vera e verso i dieci anni ho cominciato ad andare a suonare veramente, con una band fatta di persone più grandi di me. Ci esibivamo ai matrimoni, in piccole feste di paese.

La sua famiglia l'ha incoraggiata nella sua scelta musicale di vita?
 All'inizio non erano d'accordo. Mio papà, mio zio e mio cugino avevano una impresa edile e sempre la mia famiglia aveva anche un bar. L'ho gestito per un po' e ho lavorato anche in campo edile, non mi dispiaceva, ma non era la mia strada. Così a 28 anni ho deciso di tentare la carriera di musicista. E fino ad adesso, nel bene e nel male, ce l'ho fatta.

Come è nata la scelta del suo nome d'arte?
Chiamavano Gandhi mio papà perché era molto magro. Ero magro anch'io e così ho ereditato il soprannome. Poi un caro amico un giorno mi ha detto che il mio nome e cognome era troppo lungo da scrivere e mi ha presentato come U.T. Gandhi. Da allora sono conosciuto da tutti solo così. 

UT Gandhi a Casa UILDM

A chi si è ispirato nel suo percorso di crescita musicale? Qual è il suo jazzista preferito?
Per quanto riguarda gli italiani, ho avuto la fortuna di suonare dieci anni con Enrico Rava, che è un'icona del jazz. E questo mi ha portato a suonare anche con altri musicisti di livello nazionale come Bollani e molti altri. Ho avuto anche la possibilità di andare all'estero e conoscere musicisti europei ed americani con i quali ho suonato e suono ancora, perché la musica jazz è un percorso che si fa lungo la vita, durante il quale ci si trova, ci si lascia, ci si ritrova. Chi fa questo genere di musica cerca sempre stimoli nuovi, composizioni nuove, gruppi nuovi. E questo è il bello del jazz. 

La lista di artisti con la quale ha collaborato è lunga. C’è tra questi uno che ritiene abbia contribuito in maniera determinante alla sua crescita musicale?
Uno è sicuramente Enrico Rava. Credo sia il più grande musicista che ha avuto l'Italia. Insegnando alla scuola di musica jazz a Siena, fa delle master class di musica d'insieme cui partecipano gli allievi selezionati e da lì prende molti dei musicisti giovani che poi suonano con lui, assieme ad altri talenti che scopre in giro. Anche attualmente ha un gruppo la cui età vai dai 25 ai 35 anni e per questo merita un plauso speciale. Stefano Bollani, Danilo Rea e molti altri sono passati sotto le sue ali. E tra questi ci sono anch'io. Un altro musicista per me fondamentale è Joe Zawinul. Mi sono ispirato a lui e ne sono anche diventato amico.
L'unico rammarico è che non siamo mai riusciti a suonare insieme. È un sogno che, a differenza di altri, non sono riuscito a realizzare, anche perché è mancato improvvisamente nel 2007. 

È vero che per lei è fondamentale l’ascolto, rispetto all’esecuzione?
È la prima cosa. E questo me l'ha insegnato Rava più di tutti. Per poter interagire con gli altri musicisti devi saper ascoltare. A chi gli chiedeva cos'è il jazz, Louis Armstrong rispondeva che non si può spiegare, si può solo suonare. Ed è vero perché il jazz è un'alchimia, una chimica, che con alcune persone può anche non funzionare. È capitato anche a me. Con alcuni voli, con altri no.
Per questo è fondamentale ascoltare. Perché, quando ascolti quello che sta succedendo, mentre stai suonando, ti metti in una situazione di controllo, di concentrazione ad alto livello ed è così che nascono le improvvisazioni migliori. Ma quello che accade realmente quando suoni con altre persone non so spiegarlo a parole. È una cosa molto intima.

Il rapporto di U. T. Gandhi con l’elettronica. La usa, le piace?
La uso moltissimo e mi piace. La uso da almeno 30 anni e me l'ha insegnato proprio Zawinul, tra i primi ad utilizzarla, con campioni di voci africane, campioni di strumenti antichi che vengono miscelati in tempo reale dal vivo. È un nuovo linguaggio di sviluppo della musica. È una nuova strada che va oltre il jazz, la contemporanea, la classica.
È incredibile quello che si può fare, ma non è facile. Non è da tutti. 

A chi piace la sua musica? Quale crede sia il suo pubblico?
Il punto è sempre cosa suoni, con chi suoni e dove suoni. Il jazz club è piccolo e intimo, il teatro è bello, ma c'è già più distacco dal pubblico, come negli auditorium o all'aperto. Spero che la mia musica piaccia, ma non sta a me dirlo. Ora sono appena stato tre giorni in Scozia, ad Edimburgo, dove abbiamo avuto successo con un quartetto molto interessante composto oltre che da me, da Pasquale Mirra al vibrafono e marimba, da Rosa Brunello, una ragazza di Venezia molto brava, al basso elettrico, e dal sassofonista sardo, Enzo Favata. 

Come spiegherebbe la musica jazz ad un bambino?
Per circa dieci anni a Santa Teresa di Gallura, al festival Musica sulle Bocche, facevo dei corsi in cui raccontavo il jazz ai bambini. Usavamo la batteria e le percussioni e facevamo delle piccole improvvisazioni di musica d'insieme. Usavo il mio metodo, che è quello con cui ho imparato: ascoltare e copiare. Ai bambini insegno ad essere se stessi, a giocare. Dopo, se c'è la stoffa, l'intuito, l'idea, è giusto che la famiglia, com'è capitato anche nel mio caso, stia attenta ad aiutarli, indirizzarli verso uno strumento che gli piace. Senza forzarli. 

Ha girato il mondo, c’è un Paese che dal punto di vista musicale ritiene essere più interessante e stimolante?
Tra giugno e luglio siamo stati in Vietnam, un paese che mi ha colpito per l'entusiasmo verso la musica. Abbiamo suonato esibendoci assieme ad alcuni ragazzi con cui avevamo fatto una master class concerto al conservatorio di Hanoi. Da questa esperienza è nata un'idea per il prossimo anno: andare in Vietnam e in Cina e fare delle master class di lavoro. Il livello è molto alto. Il progetto è di tornare e portargli un po' della nostra esperienza. Non certo di insegnargli a suonare, perché lo fanno già benissimo, anche meglio di me probabilmente. Vorremmo coinvolgerli in un linguaggio nuovo, che non sia solo quello del jazz americano anni Cinquanta che usano. Aprirli ai nuovi linguaggi, ad esempio la musica etnica. E loro ne hanno molta, interessantissima. A partire dagli strumenti antichi che usano. Oggi secondo me bisogna mescolare i linguaggi, stare sulla sperimentazione. Ma su quella fatta bene, non astratta. Ci vuole anche un po' di astrazione, ma deve sempre essere motivata da uno studio armonico con gli strumenti che hai. 

C'è un concerto che ricorda in modo particolare. Per il pubblico, l'atmosfera, il luogo?
Ero in Germania attorno al 2009, in una cittadina sul Reno per un concerto con un trio creato per la celebre etichetta discografica internazionale ECM e in cui suonavo assieme al pianista greco Vassilis Tsabropoulos e alla violoncellista di Monaco Anja Lechner. Era una mescolanza un po' strana, ma abbiamo fatto un bel disco che ha avuto un successo molto forte con un connubio di musica di Gurdjieff e musica bizantina, con un po' di improvvisazione moderna. Alla fine del concerto una signora sui settanta, ottant'anni si avvicina e, in inglese, mi dice: “Avete fatto un concerto strabiliante, ma la cosa che mi ha colpito di più sono state le espressioni di divertimento e sorpresa che esprimeva la sua faccia durante il concerto”. Per me è stato un grande complimento, perché in effetti quando suono in genere mi diverto e lo dimostro anche. 

Un suo parere sulla situazione del jazz in Italia e in Friuli.
Il livello dei musicisti in Italia è altissimo e in particolare anche qui da noi in Friuli.
Probabilmente abbiamo seminato bene nel tempo e c'è un bel fermento di giovani talenti in tutti campi. C'è una generazione che ha tra i venti e i quarant'anni che ha davvero un grande livello. Il problema che abbiamo da diversi anni a questa parte è la fruizione. Vent'anni fa a Estate in città a Udine organizzavamo qualcosa come ottanta concerti in tre mesi. Adesso si va più a vedere i grandi eventi. E poi si è persa la sensibilità delle istituzioni. Eppure abbiamo bisogno di far rivivere gli spazi delle nostre città e le piazze dei piccoli paesi, un po' come fa Folkest. In passato, almeno dagli anni Novanta fino ai primi anni Duemila, lo abbiamo fatto anche con il jazz. Poi è scemato tutto. Non so perché. E lo stesso è successo per i locali. 

Non ce ne sono più molti in cui suonare?
 A Udine c'è un solo locale che fa jazz, il caffè Caucigh. Qualche altro spazio c'è a Pordenone e Trieste, ma molto poco rispetto a una volta. Il Triveneto a metà degli anni Ottanta era pazzesco: da Verona fino a qui c'erano locali da ogni parte e io li ho girati tutti.

UT Gandhi con Joe Zawinul
Foto di Luca D’Agostino/Phocus Agency

Crede che si potrebbe fare di più per valorizzare i talenti che abbiamo in campo jazzistico?
In Friuli le istituzioni, i grandi festival non hanno mai dato molto spazio ai tanti musicisti di grande valore che abbiamo in regione, e non parlo solo di me, ma anche di artisti come Daniele D'Agaro, Giovanni Maier, Nevio Zaninotto e tanti altri. Non c'è mai stato almeno un riconoscimento artistico nel farti partecipare a un progetto originale, a un evento come può essere il Mittelfest che è anche una vetrina. Io, come altri, lavoro molto fuori regione e le mie soddisfazioni le ho. Però è vero che non si è mai profeti in patria. 

Come si può avvicinare una persona alle percussioni?
Le percussioni sono uno strumento che coinvolge. Anni fa il Centro Servizi e Spettacoli di Udine, assieme a Rita Maffei, decise di fare uno spettacolo teatrale adattando una versione di Giulietta e Romeo dello scrittore africano Sony Labou Tansi. Per quello spettacolo mi furono commissionate le musiche che dovevano essere eseguite dal vivo. Feci un corso di percussioni che si sviluppava per tre ore al giorno, ogni giorno, per due settimane. Arrivarono 120 persone.
È stata una cosa di grande coinvolgimento. Come lo sono stati i laboratori che, sempre con il Css, ho fatto nelle carceri regionali o quelli che ho fatto con persone con disabilità al centro della fondazione “Pontello” a Mels di Majano e a Porpetto.

Com'è nata l'esperienza con i detenuti?
Il progetto è nato dal CSS di Udine e si è sviluppato per una decina di anni fino al 2007. Siamo partiti da Udine, poi si è aggiunto Pordenone e qualcosa, ma poco a Gorizia. Gli ultimi anni, infine, si sbloccò Tolmezzo.
A Udine abbiamo realizzato un CD in cui, assieme ad alcuni musicisti, suonano anche i detenuti. È stato particolarmente bello, perché, grazie alla disponibilità del direttore dell'epoca, che era una persona molto in gamba e vedeva lontano, siamo riusciti anche ad organizzare un concerto in piazza San Giacomo con i detenuti, usciti dal carcere per l'occasione.

Il suo percorso musicale è stato all'insegna di continui cambiamenti, di una ricerca costante. A che puntò è oggi questo viaggio? A che progetti sta lavorando?
Ho cominciato a incidere i primi dischi nel 1985. E sono andato in molte direzioni. Nel 1989, per esempio, ho fatto un progetto lavorando sulle villotte friulane, ma sempre in chiave moderna e improvvisata. Ho avuto diversi periodi, a seconda delle suggestioni che ricevevo, dell'ispirazione del momento. Una cosa che mi piacerebbe fare in futuro è un omaggio a Nino Rota, l'autore delle musiche dei film di Fellini, che amo molto.
Oppure mi piacerebbe fare qualcosa con una fanfara o con un coro degli alpini.
L'ultima cosa che ho fatto volentieri è stata per il quarantennale del terremoto. Ho realizzato un DVD con spezzoni di immagini prese dalla Cineteca di Gemona, dalla Rai e da video privati che vanno dal 1976, l'anno del terremoto, ad oggi. Adesso ho trovato dei filmati di alcuni amici di Osoppo, tra i quali un video a colori del 1957, fatto da degli emigrati in Argentina tornati in Friuli con un cinepresa senza sonoro. E lì ho riscoperto tutto un mondo che io da bambino ho vissuto e che con il terremoto è scomparso. Mi sono messo a rimontare tutto questo materiale che va dal 1957 al 1976 aggiungendoci le mie musiche. Poi, assieme al maestro Mino Biasoni di Osoppo, che è la memoria storica del paese, stiamo inserendo tutti i sottotitoli in osovano, cercando di individuare i luoghi e le persone, anche grazie ai ricordi di tanti anziani.

Che cosa ricorda del terremoto del 1976?
È una ferita ancora aperta. Avevo 16 anni e mi ricordo tutto di quella sera. Se chiudo gli occhi, vedo davanti a me il film di quei momenti.
A casa mia, siamo stati tutti bene, tranne mia cugina che era fuori casa in un punto in cui è crollato tutto ed è morta.
Quando ha cominciato ad albeggiare ho visto questo squarcio: sembrava Berlino bombardata nella seconda guerra mondiale o Saigon durante la guerra del Vietnam, con la gente ancora sotto le macerie. Per fortuna la solidarietà è stata grande. Siamo stati bravi, abbiamo ricostruito tutto rapidamente e senza grandi ruberie.
L'unica cosa che non abbiamo saputo ricostruire è il tessuto sociale. Il dinamismo, la solidarietà che c'erano i primi anni dopo il terremoto, quando si viveva in baracca, si sono persi e non solo da noi. Il paese di quando eravamo bambini, con la vita del borgo non c'è più. È inevitabile che sia così perché è cambiato il mondo, ma ci lascia comunque amareggiati.