Dalle prime bracciate in piscina alla medaglia di bronzo nell'handbike alle Paralimpiadi di Tokyo: la straordinaria storia umana e sportiva di Katia Aere

Un cigno nero, l'ala di una farfalla sulla pista, l'emozione del vento che torna ad accarezzarti la faccia. Dai primi sintomi di una malattia che stava per toglierle tutto, alle emozioni del traguardo olimpico, Katia Aere si racconta con passione e sincerità. 

In questa intervista a “Distanza Minima” la campionessa di Spilimbergo ripercorre le tappe del suo percorso di vita e nello sport, dalle prime bracciate in piscina all'incontro con Alex Zanardi, fino alla straordinaria medaglia di bronzo alle Paralimpiadi di Tokyo e ai suoi progetti per il futuro. 

Quanti anni aveva quando la malattia si è manifestata? Quali sono stati i primi sintomi?
I primi sintomi sono arrivati improvvisamente, una mattina, mentre stavo lavorando come infermiera presso il servizio trasfusionale. All'improvviso mi accorgo che iniziano ad arrivarmi dei dolori alle spalle, al collo e alle anche. Ma la cosa che mi aveva preoccupato di più è che nel giro di qualche ora non riuscivo più a deglutire. Lì abbiamo capito che c'era qualcosa che non funzionava. Dagli esami fatti urgentemente abbiamo capito che c'era qualcosa che stava danneggiando la muscolatura. Da Spilimbergo sono stata trasferita a Udine dove hanno fatto i primi trattamenti urgenti. La diagnosi è arrivata dopo tutta una serie di esami specifici ed è stata di dermatopolimiosite autoimmune, che è una malattia autoimmune rara e quindi come tale da subito ha deciso di complicarmi la vita.

Quando si è aggravata?
Diciamo che ha esordito subito in maniera molto grave, perché gli esami ematici erano dall'inizio quasi incompatibili con la vita. Il trattamento in urgenza ha fatto in modo non dico di bloccarla, ma se non altro di rallentare la crudità con cui è sorta. Già da subito mi ha presentato un conto salatissimo perché, in realtà, io non riesco più a bere, ad alimentarmi, a muovere braccia e gambe. Sostanzialmente la parte che all'inizio la malattia lascia diciamo quasi sana è la parte del torace, anche se in realtà colpisce anche l'apparato digerente. Il conto ancora più salato arriva un paio d'anni dopo perché purtroppo la maL’intervista Con il vento tra i capelli Dalle prime bracciate in piscina alla medaglia di bronzo nell'handbike alle Paralimpiadi di Tokyo: la straordinaria storia umana e sportiva di Katia Aere lattia colpisce anche i muscoli che controllano la respirazione e quindi nel giro di un paio d'anni mi ritrovo a dover fare ossigenoterapia giorno e notte perché l'ossigenazione con la mia respirazione non era più sufficiente.

Come si è avvicinata allo sport paralimpico?
L'anticamera di quella che sarà poi la mia esperienza sportiva è la necessità di dover intraprendere un percorso di idrokinesiterapia. Questo percorso mi era stato caldamente suggerito, affiancato alla terapia farmacologica tradizionale, già dall'esordio della malattia, perché l'attività controllata in acqua avrebbe aiutato a rafforzare la muscolatura che era stata gravemente colpita. Peccato però che da quando ero bambina mi portavo dietro una fobia atavica dell'acqua al punto da aver grosse difficoltà anche a lavarmi i capelli sotto la doccia. Quindi da subito avevo sempre rifiutato questo tipo di approccio terapeutico, finché ad un certo punto della malattia mi viene detto che non mi rimane molto tempo, perché la condizione respiratoria continua a peggiorare e anche la situazione muscolare generale non faceva ben sperare.

Come è riuscita a superare la sua fobia dell’acqua?
E’ scattato quello chiamo istinto di sopravvivenza, che mi ha spinto nel giro di poche ore a trovare un centro di riabilitazione che facesse questo tipo di fisioterapia. E devo dire che sono stata fortunata perché ho trovato il fisioterapista giusto, che ha capito il mio terrore dell'acqua ancora prima della mia paura della malattia, e letteralmente mi ha condotto attraverso questo percorso, che già dopo qualche mese mi ha rafforzato non solo nel fisico, ma anche soprattutto nella mente.


Katia Aere durante l’intervista

Come è nata la passione per il paraciclismo?
Il ciclismo e tanto meno il paraciclismo non mi erano mai interessati. Inoltre, dopo aver sconfitto la paura dell'acqua, ho iniziato a fare nuoto agonistico e quindi non mi interessavano altri sport. Poi nell'agosto 2018 mio marito, che è un accanito sostenitore del ciclismo, mi convince a ad andare a vedere una gara mondiale di paraciclismo a Maniago. Mi lascio convincere e senza neanche accorgermene mi trovo con la carrozzina spinta da mio marito all'interno dello stand di Obiettivo 3, il progetto che Alex Zanardi ha fortemente voluto con lo scopo di avvicinare ragazzi e ragazze con disabilità, giovani e meno giovani, alla disciplina sportiva.

Le handbike che usa sono fatte su misura? Quante ne ha?
L'handbike che utilizzato quel giorno a Maniago è un handbike prototipo che era stata creata proprio per far provare i ragazzi che si avvicinavano a questo progetto. La bicicletta che sto utilizzando adesso e che mi ha accompagnato a Tokyo, invece, è una handbike che con tanto sacrificio mi sono fatta fare su misura in Spagna. La mia bici l'ho soprannominata “black swan”, che significa “cigno nero”, perché il suo profilo ricorda esattamente la sagoma di un cigno nero.

Chi sostiene le spese per queste attrezzature? Ci sono sponsor, contributi pubblici?
Questo è un tasto molto dolente, perché tutte le spese sono a carico degli atleti. La mia bicicletta ha un costo molto alto, più di un anno del mio stipendio. Quindi si può immaginare come l'acquisto di un mezzo così sia un peso non indifferente. Nel mio caso posso ringraziare degli sponsor privati che mi hanno aiutato nell'acquisto e senza i quali sinceramente da sola non sarei stata in grado di sostenere completamente la spesa. Contributi pubblici purtroppo, perlomeno nel mio caso, non è stato possibile averne. È questo, secondo me, dimostra ancora di più che quello che facciamo lo facciamo in primis per la passione e perché ci fa star bene.

Quante ore deve dedicare agli allenamenti?
Le sessioni di allenamento sono più o meno una decina alla settimana. Io lavoro praticamente tutte le mattine come infermiera in ospedale. Nell'altra metà della giornata che mi rimane libera svolgo due sessioni di allenamento. Una presto, verso le 14:30, e la seconda invece in tarda serata.

Come concilia lavoro, famiglia e allenamenti?
Già conciliare lavoro ed allenamenti è abbastanza difficile, se poi in tutto questo ci devo inserire anche la famiglia è ancora più difficile.
Ho un marito che a volte mi fa, non dico da allenatore, perché l'allenatore ce l'ho, però mi fa da cocoach, da autista, da cuoco che mi assicura che quando torno a casa dal lavoro possa trovare sempre un piatto di pasta pronto, per poter poi scappare al primo allenamento. Quindi devo dire che sono davvero fortunata sia con mio marito, che è un po' il mio angelo custode, sia con la mia famiglia d'origine, mio fratello, mia sorella, mia cognata, mia madre, che sono davvero un pezzo molto importante della mia vita e che mi sostengono anche a livello pratico in quello che faccio.

Come si prepara psicologicamente prima di una competizione?
Non ho dei grandi preparativi. Una cosa che faccio di solito il giorno prima di una gara è il controllo quasi maniacale di tutto il materiale che mi può servire in gara. La bici deve essere perfetta, devo avere tutti i ricambi a posto, il materiale che indosso deve essere come dico io. Arrivo proprio al controllo millimetrico di qualsiasi cosa andrò ad utilizzare il giorno dopo. Prima delle gare importanti la predisposizione mentale mi arriva da quella fisica.

Le paralimpiadi hanno davvero qualcosa di più delle altre competizioni?
L'olimpiade è il sogno di qualsiasi atleta. Difatti le cose che rimangono più in mente sono i risultati che un atleta ottiene ad un'olimpiade.
Una medaglia al mondiale è sempre una medaglia che dà lustro, che dà comunque manforte all'attività per cui ti impegni, però l'olimpiade è un'altra cosa.

Com'era la vita nel villaggio paralimpico?
Avevamo tutto quello che si poteva desiderare e l'ospitalità dei giapponesi poi è una cosa incredibile. Quando abbiamo terminato le nostre gare, abbiamo voluto fortemente passare gli ultimi giorni prima della ripartenza per l'Italia al villaggio olimpico dove si respirava un'aria di totale condivisione È un'esperienza che credo mi abbia fatto crescere molto, che non dimenticherò mai e che spero di ripetere, chissà, fra tre anni a Parigi.

Ci racconta la gara di Tokyo, per come l'ha vissuta lei?
Sapevamo che sarebbe stata molto dura perché il chilometraggio di entrambe le gare era abbastanza alto. Per la gara in linea di parlava di quasi 70 chilometri, con un dislivello molto importante e un clima che non perdonava. Quando siamo arrivati a Tokyo mi sono resa conto che il clima era molto peggio di quello che ci aspettavamo. C'era un'umidità incredibile che non permetteva di respirare. Noi c'eravamo allenati tanto in altura per essere pronti per sostenere quel tipo di gara lì, però quello che ci siamo trovati a dover vivere era ben oltre le nostre aspettative. In più c'è da dire che, per quanto mi riguarda, ho scelto di correre in una categoria che non è propriamente la mia, la categoria H5, che è prettamente destinata alle persone con amputazioni e quindi senza gambe o senza una gamba, ma con una muscolatura di tronco e braccia normale, mentre la mia malattia ha colpito anche le braccia.

Con che spirito ha affrontato la gara?
La gara a cronometro purtroppo l'ho affrontata con quel pensiero lì, col pensiero di dire “Beh insomma, sono ad un'olimpiade, però le mie avversarie sono più forti di me”. E quindi non dico che sono partita già perdente, però sono partita con quella paura reverenziale nei confronti delle mie avversarie. Alla fine sono anche andata bene perché, col fatto che le categorie erano state accorpate, eravamo in parecchie e mi sono classificata sesta che in una cronometro è un gran bel risultato.

Cos'è cambiato nella gara su strada?
Sapevo che avrei potuto far bene, perché anche se non sono potente per le problematiche alle braccia, sono però molto resistente. E quindi il chilometraggio molto lungo e le difficoltà del percorso forse avrebbe potuto giocare a mio favore. Il primo settembre mi sveglio con una tranquillità che non mi ricordo di aver mai avuto in nessun altra gara prima, forse era la tranquillità dell'incoscienza. Arrivo al circuito dove si svolge la gara. Entro nel box della nazionale italiana e, poco prima di salire sulla handbike per iniziare il riscaldamento, vedo che a terra, a pochi centimetri dalla mia bici, c'è un'enorme ala di farfalla, veramente gigantesca. Penso che già duInquadra con il telefonino e guarda il video dell’intervista a Katia Aere L’intervista a Aere si può vedere anche sulla pagina Facebook di WheelDM e sul sito della UILDM di Udine rante il ritiro, negli ultimi due mesi prima di arrivare a Tokyo, le farfalle erano una costante nei miei allenamenti, mi accompagnavano sempre e ne ho addirittura trovata una fuori dalla mia stanza.
Ad un certo punto questi incontri li avevo pensati come se ci fosse qualcuno che dall'alto mi sosteneva, mi accompagnava in questa esperienza. E quindi il fatto di trovare questa enorme ala di farfalla vicino alla mia bici mi ha fatto pensare in gara non sarei stata sola, ma ci sarebbe stato qualcuno che mi avrebbe accompagnato, mi avrebbe aiutato a spingere sui pedali.

E poi?
E poi succede che a pochi minuti dal via mi si avvicina il giudice internazionale e mi fa presente che mi manca un numero sul casco. Nel giro di un nanosecondo tutta la mia tranquillità va a farsi benedire. Devono bloccare la partenza e mandare qualcuno a far stampare un numero supplementare da potermi apporre sul casco. Nel momento in cui mi mettono questo benedetto numero sul casco e mi accompagnano in griglia, improvvisamente, però, tutto il nervosismo se ne va. Volevo solamente sentire il via del giudice.
Quando la gara inizia, continuo a pensare troppo, mentre, come ho detto prima, è meglio non pensare, ma lasciar fare a quello che abbiamo imparato durante tutte le ore di allenamento. Alla fine del primo giro non ero messa benissimo. Avevo tirato un pochino però poi le mie avversarie mi avevano superato. Allora, nel momento in cui ho attraversato il punto di arrivo del primo giro, mi sono detta: “Tu devi fare quello che sai fare e devi farlo bene”. Nel momento in cui mi sono detta questo e ho iniziato ad applicarlo, la gara è stata sì una gara dura, ma sono riuscita a fare cose incredibili. Tant'è che mentre correvo e mentre sorpassavo le mie avversarie mi chiedevo ogni tanto come fosse possibile che non arrivasse qualcuno da dietro a superarmi. Avevo sempre un occhio all'indietro, perché temevo che ci fossero delle avversarie pronti a battermi. Però questi avversari non arrivavano mai e non sapevo che ad un certo punto della gara avevo davanti l'atleta cinese che poi ha fatto l'argento ad una manciata di secondi.
Magari, chissà, avrei potuto lottare un po' di più per l'argento.
La mia gara si è svolta così, sempre con un occhio buttato all'indietro per cercare di non farmi sorprendere e con il pensiero proiettato avanti perché avevo voglia di fare quello che sapevo fare. Negli ultimi 30 metri del rettilineo che portava al traguardo ho capito che non solo stavo realizzando il sogno di un'olimpiade, ma stavo firmando un'impresa con il bronzo olimpico. Quando ho attraversato quel traguardo c'è stata una cascata di emozioni, di felicità che non dimenticherò mai e che mi hanno cambiato la vita.


Katia Aere con Alex Zanardi

Al di là degli aspetti sportivi, cosa le ha insegnato Alex Zanardi?
Alex mi ha insegnato tutto questo. Sono diventata un'atleta del nuoto perché mi è capitato di vedere Alex nelle Paralimpiadi di Londra. L'ho visto per caso, perché sto facendo zapping e mi è capitato di fermarmi su un canale dove c'era l'immagine di lui che alzava la bici al cielo dopo aver vinto l'oro. E lui con quel gesto lì, con quella sua semplicità, con quella sua umiltà nel fare le cose, mi ha insegnato davvero tanto. Mi ha insegnato cose che magari nel momento in cui le ho vissute, le ho viste, non ero in grado di capire fino in fondo, ma che ho poi elaborato nel tempo. Nel momento in cui la scintilla che lui mi ha acceso con quell'immagine mi ha permesso di andare oltre, di fare molto. Alex mi ha insegnato davvero a riscoprirmi in maniera diversa, ad acquistare una consapevolezza non solo come atleta, ma prima di tutto come persona. Mi ha insegnato che comunque siamo noi a scegliere chi vogliamo essere e che cosa vogliamo mettere sul campo: le nostre abilità, i nostri principi, i nostri valori. E soprattutto mi ha insegnato a trasmettere ad altri quello che io ho imparato da lui. E io dico sempre che, se la mia esperienza a vari livelli può essere servita a qualcuno per uscire dal guscio, per uscire da casa, per cimentarsi anche nella cosa più semplice, più banale, allora vorrà dire che quello che io ho fatto nella vita avrà acquistato ancora più valore, perché sarò stata utile a qualcun altro. Io vorrei essere per qualcun altro quello che Alex in quel 2012 è stato per me: la scintilla che mi ha fatto venire voglia di riscoprirmi nella disabilità.