Che cosa si prova a tenere in mano l'amuleto di un bambino vissuto 5.000 anni fa? Le nuove tecnologie ci aiutano a capire il nostro passato? Ce lo racconta l'archeologa pordenonese Katia Gavagnin


Katia Gavagnin sullo scavo in Kurdistan

È abituata a scavare nelle tempo alla ricerca delle radici della nostra civiltà. Parla diverse lingue e le sue ricerche l'hanno portata, tra l'altro, in Siria, in Georgia, nel Kurdistan iracheno e in Arabia Saudita. Nata a Porcia nel 1978 e laureata in Archeologia all'università di Venezia, ha ottenuto il dottorato in Storia del patrimonio archeologico e storico artistico a Torino. Specializzata nello studio delle ceramiche, ha partecipato a molte importanti campagne internazionali di scavi, collaborando, tra l'altro, con gli atenei di Udine e Venezia. La redazione di WheelDM ha incontrato a “Distanza minima” l'archeologa Katia Gavagnin.

Come le è nata la passione per l'archeologia e com'è diventata il suo lavoro?
È una cosa che mi è nata un po' per caso. Volevo fare l'insegnante di ginnastica, ma quell'anno non sono riuscita a entrare all'Istituto superiore di educazione fisica di Bologna e quindi mi sono iscritta a Conservazione dei beni culturali. Poi, quando ho cominciato a studiare, mi sono appassionata e ho scelto l'archeologia, in particolare l'archeologia del vicino oriente, perché mi appassionavano le civiltà della Mesopotamia.

Nella sua attività c'è più avventura o più fatica?
Tutte e due. Lavorando all'estero, per ogni missione io e i miei compagni di avventura stiamo via due o tre mesi, vivendo insieme nella stessa casa, condividendo le stanze e gli spazi. Si lavora un sacco di ore al giorno ed è un'attività impegnativa.
Però abbiamo anche un sacco di avventure divertenti e poi, quando scopri delle cose che hanno 4.000 o 5.000 anni, è bellissimo e vale la fatica. Anche se, quando sei via, ti manca la tua famiglia e a me mancano molto anche i miei animali.
Vivere insieme a volte è difficile e qualche volta vorrei poter stare da sola, nell'insieme però è bello, perché a me piace conoscere persone nuove, stringere amicizie anche con chi vive nei paesi dove scaviamo.

Per chi lavora? Solo università ed enti culturali o anche realtà private?
Faccio entrambe le cose. Collaboro con l'università di Udine, per la quale lavoro nel Kurdistan iracheno, e anche con l'università di Venezia, con la quale prima lavoravo in Siria e adesso in Georgia. Ho lavorato anche per delle ditte private, come ad L’intervista Alla ricerca del tempo perduto Che cosa si prova a tenere in mano l'amuleto di un bambino vissuto 5.000 anni fa? Le nuove tecnologie ci aiutano a capire il nostro passato? Ce lo racconta l'archeologa pordenonese Katia Gavagnin Katia Gavagnin sullo scavo in Kurdistan esempio in Arabia Saudita, dove sono andata per conto di un'azienda francese. In Italia, sempre per dei privati, per due anni ho seguito un metanodotto nella zona di Oderzo. Diciamo che in questo secondo caso è più un lavoro tecnico, mentre per l'università è più un lavoro di ricerca, che è quello che mi piace di più fare.

Il lavoro dell'archeologo è un lavoro solitario o di gruppo?
È soprattutto un lavoro di gruppo. Tra di noi ognuno ha la sua specializzazione. Io mi sono specializzata nello studio della ceramica, poi c'è chi è specializzato, per esempio, nello studio delle ossa animali, dei metalli o della litica, cioè delle selci trovate nei siti preistorici. Non è mai un singolo che scopre una cosa, è sempre il team.

Come nasce una spedizione di ricerca archeologica?
Di solito per quanto riguarda le università ogni professore ha un suo filone di ricerca. Nel caso di Udine il professor Morandi Bonaccorsi è un esperto degli Assiri e quindi ha deciso di andare a lavorare nel Kurdistan iracheno. Abbiamo iniziato con un ricognizione di superficie alla ricerca di siti da scavare.
Per prima cosa un mio collega esperto in queste cose ha studiato delle vecchie immagini satellitari fatte per usi militari, perché se dall'alto sul terreno si vedono delle anomalie, probabilmente sotto c'è qualcosa. Potrebbe essere un sito archeologico oppure no. Siamo andati a controllare uno a uno questi siti e in quattro - cinque anni di lavoro abbiamo scoperto più di mille siti archeologici in quest'area di 3.000 chilometri quadrati. Il professor Morandi poi ha deciso quale sito scavare in base ai suoi interessi di studio.

E se la ditta è privata?
La ditta privata viene contattata dall'ente se una zona è sottoposta a rischio archeologico, per esempio perché in quell'area ci sono già stati dei ritrovamenti. In questo caso qualunque tipo di scavo deve essere fatto in presenza di un archeologo, che deve controllare che non vengano trovati nuovi siti e non siano distrutti, quantomeno per documentarli.
Durante i miei due anni di lavoro lungo un metanodotto abbiamo trovato sei o sette siti archeologici.

Da quanti e quali specialisti è composta una spedizione?
Quella con cui sto per partire è composta da una trentina di persone. Alcuni sono studenti, altri sono specialisti come me della ceramica, poi c'è un archeozoologo che studia le ossa animali, una paleobotanica che studia i resti delle piante antiche, una palinologa che studia i pollini, un antropologo fisico che studia le ossa quando troviamo le tombe, dei geologi che vengono a vedere i terreni e così via. Insomma è proprio un'attività multidisciplinare.

Come è stata accolta in quanto donna in Paesi con grossi problemi di emancipazione femminile?
Generalmente non abbiamo grossi problemi anche se può capitare di avere qualche incomprensione con gli operai che si occupano della parte più pesante degli scavi. Una giorno non riuscivo ad uscire da uno scavo perché era troppo profondo. Ho chiesto aiuto a un operaio e lui si è rifiutato, dicendo che non poteva toccare una donna. Un altro, però, mi ha tirato su senza difficoltà. Quindi dipende, anche loro sono diversi. A volte succede che non amino essere comandati da una donna, ma nella maggior parte dei casi lavoriamo bene.


Katia Gavagnin durante l'intervista

Ci racconta qualcosa del progetto Terra di Ninive in cui è stata coinvolta?
Il progetto dell'Università di Udine è iniziato nel 2012 ed è diretto dal professor Morandi Bonaccorsi. Dopo la ricognizione di superficie di cui ho già parlato, abbiamo iniziato gli scavi nel sito di Gire Gomel, dove abbiamo scavato tre aree principali. Quella in cui ho scavato io ha restituito una necropoli con tombe che vanno dal periodo islamico al terzo millennio avanti Cristo. Un'altra area, invece, ha restituito un palazzo della prima metà del secondo millennio avanti Cristo.
Inoltre il progetto Terra di Ninive si è occupato di tutto il sistema di canalizzazione creato dai sovrani assiri, che hanno fatto delle opere di ingegneria idraulica pazzesche per l'epoca, per canalizzare l'acqua e portarla alla capitale che era Ninive, l'odierna Mosul.
Questa scoperta ci ha fatto vincere il premio "Khaled alAsaad" per la più importante scoperta archeologica del mondo nel 2020. Oltre allo scavo ci stiamo occupando anche della salvaguardia di questi rilievi. C'è un progetto per coprirli e restaurarli. A Faida abbiamo anche creato un parco archeologico per renderlo fruibile alla popolazione locale, alle scuole, perché è giusto che anche loro capiscano il loro patrimonio e lo possano visitare. Quindi oltre a scoprire le cose cerchiamo anche di salvaguardarle.

Quali sono nel suo campo le zone del mondo più interessanti?
Visto che ho studiato in modo particolare la Mesopotamia e il vicino Oriente, per me le zone più interessanti sono la Siria e l'Iraq, ma anche l'Egitto, la Turchia. E poi c'è la Georgia, che è un altro mondo, ma ha delle connessioni con il vicino Oriente. Ad esempio c'è un tipo di ceramica, la ceramica Kura-Araxes, che prende il nome da due fiumi che attraversano il paese. Era prodotta soprattutto nel Caucaso, ma è stata trovata anche in un sito che si trova in Turchia. I KuraAraxes erano un popolo nomade del quarto - terzo millennio avanti Cristo e probabilmente scendevano dalle montagne del Caucaso alla ricerca di sale e di pascoli e si sono insediati in Turchia.

Quand’è che l’uomo ha iniziato ad utilizzare la ceramica?
La ceramica nasce più o meno nel sesto millennio avanti Cristo. All'inizio era molto grezza, poi invece nel periodo nel quinto millennio i vasetti sono molto fini, molto depurati, dipinti, poi nel terzo millennio è decorata pochissimo, mentre nel secondo ricomincia a essere dipinta. Nella fase medio assira invece è più standardizzata, perché utilizzata per l'uso comune. La ceramica varia moltissimo nel corso della storia e noi riusciamo a datarla proprio perché conosciamo i cambiamenti.

Che informazioni ci danno sulla vita delle epoche passate le ceramiche?
Intanto ci fanno capire un po' come si viveva, che tipo di ambiente stiamo scavando. Per esempio, se in una stanza ci sono solo giare di grandi dimensioni, allora sappiamo che probabilmente era un magazzino, se invece troviamo tanti piccoli utensili, pensiamo si trattasse di una casa. Nelle tombe poi ci sono delle forme ceramiche che vengono utilizzate solo per i riti funerari, ma anche altre di uso comune che venivano sepolte con il defunto e che ci danno molte indicazioni sulle abitudini degli abitanti di quel luogo.

Le nuove tecnologie hanno un impatto anche sull'archeologia?
Molto. Una volta i rilievi dello scavo venivano fatti a mano. Adesso si usa la fotogrammetria, si fanno le foto dall'alto che poi vengono disegnate direttamente al computer. Lo stesso vale per la ceramica: abbiamo i disegnatori che disegnano la ceramica a mano e poi con dei programmi la rielaboro al computer in modo che anche per le pubblicazioni venga più uniforme. Usiamo i droni e abbiamo i laser scanner per fare il 3D delle cose. Ad esempio con i laser scanner abbiamo fatto la scansione del rilievo assiro e poi con una stampante 3D lo abbiamo riprodotto in scala reale e abbiamo allestito una mostra per diversi mesi al Castello di Udine. Queste cose vent'anni fa non si potevano fare. Le nuove tecnologie ci aiutano moltissimo anche per altre cose, per esempio, nello studio dei resti umani vengono utilizzati degli isotopi per capire se le persone sono sempre state lì oppure se si sono spostate, se erano nomadi. Poi usiamo il carbonio 14 per datare le cose. Quindi direi che assolutamente l'impatto delle nuove tecnologie è stato importantissimo

C’è un reperto che ha trovato e che l’ha particolarmente colpita, emozionata?
Nel 2021 abbiamo scoperto otto tombe molto belle. Una di queste tombe era la tomba di un bambino che aveva una cintura di perline. Era lo scheletro di un bambino piccolo, di due tre anni e aveva tre amuleti di pietra dura a forma di animale: un riccio, una tartaruga e quello che a me sembrava un orso, ma potrebbe anche essere una mucca. Erano meravigliosi, molto piccoli e bellissimi.
Questi amuleti, datati alla prima metà del terzo millennio avanti Cristo, avevano 5.000 anni.È una delle cose che mi ha emozionato di più.

I reperti vengono restaurati prima di essere esposti? L’archeologo si occupa anche di questo?
Abbiamo dei restauratori che lavorano con noi e, con la nostra collaborazione, intervengono su quello che troviamo. Per esempio, restaurano i vasi, ed è come fare un puzzle. Per incollare i vasi devi avere delle competenze, perché bisogna usare delle resine che siano reversibili e integrare le parti mancanti. Anche i metalli vanno restaurati. Ad esempio in una delle tombe avevo trovato quello che sembrava un semplice pezzo di metallo, di bronzo, perché era tutto corroso. E poi invece la nostra restauratrice lo ha tutto pulito e si è visto invece che era un pezzo di fibula con la forma di una mano. Quindi il restauro è importantissimo e tutti i reperti prima di essere esposti vengono puliti e restaurati.

Che differenza c’è tra uno storico e un archeologo?
Lo storico studia i fatti storici tramite le fonti, di solito dei testi scritti. Invece l'archeologo in genere ricostruisce il passato da quello che trovava sul terreno. Lo storico e l'archeologo spesso lavorano insieme. Ci sono delle cose che sono scritte, ma che poi non troviamo sul terreno. È il caso, per esempio, della cosiddetta archeologia della Bibbia. La Bibbia è un libro in qualche modo storico che racconta delle cose. A volte trovano riscontri, a volte no. Quindi in realtà l'archeologia e la storia vanno di pari passo.

C’è un posto dove vorrebbe fare degli scavi?
Ci sono un sacco di cose interessanti in Italia e anche qui in Friuli. Ma io sono contenta di lavorare nei luoghi in cui lavoro già.


Katia Gavagnin al lavoro

Che consiglio darebbe a un giovane che volesse diventare archeologo?
Bisogna avere tanta passione e tanto spirito di adattamento perché non è un lavoro sempre facile. Dipende un po' da cosa fai, ma in generale, anche se lavori in Italia, d'estate si muore di caldo e d'inverno si congela, perché comunque lavoriamo all'aperto. Avevo dei compagni di università che dopo il primo scavo hanno deciso che non era per loro. E poi devi sempre aver voglia di scoprire, di studiare, di tenerti aggiornato. È un lavoro molto emozionante e stimolante, ma se qualcuno pensa di diventare ricco facendo l'archeologo è meglio che lasci perdere. All'università i posti sono pochi e con le ditte private spesso si lavora con partita Iva e si viene pagati dopo due mesi. Insomma, a livello economico non è una scelta facile, devi proprio amare questo lavoro.

Che progetti ha in vista per il futuro?
A breve partirò con la spedizione dell'Università di Udine di cui ho parlato per il Kurdistan, dove resterò fino circa alla metà di ottobre. Poi da lì andrò direttamente tre settimane in Iraq a Khorsabad, una delle capitali assire, con la ditta francese con cui ero in Arabia Saudita, a fare una ricognizione intensiva. Poi non so, perché non so mai bene in futuro cosa succederà. C'è un altro progetto in ballo, vedremo se andrà in porto.

Di recente ha partecipato a un progetto dell'Ecomuseo “Lis Aganis”, di cosa si trattava?
Vogliono fare una nuova guida dei siti archeologici del Friuli occidentale e hanno chiesto a una serie di esperti di verificare se, rispetto alla prima guida uscita nel 2008, ci siano delle novità che riguardino i siti citati. Io mi sono occupata di due siti che sono a Budoia, dove abito: la villa romana che è stata scoperta due anni fa e il Palù di Livenza, che è un sito palafitticolo bellissimo, tutelato dall'Unesco, che si trova a cinque minuti da casa mia. Mi sono occupata anche del castello di Pinzano, del Cjastelat di Arzago sempre a Budoia e poi a Castelnuovo del Friuli della raccolta di ceramiche di Villa Sulis. Ho fatto un po' di ricerca bibliografica e ho riscritto i testi per questa nuova guida.

Che cosa si prova a fare scoperte così faticose che raccontano civiltà tanto antiche?
Mi ricordo quando in Kurdistan siamo entrati per prima volta in una tomba di due metri per quattro con una volta in mattoni cotti: è stata un'emozione fantastica. Simile immagino a quella che ha provato chi è entrato per la prima volta nelle tombe delle piramidi in Egitto. E poi la cosa interessante è cercare di capire il significato di quello che hai scoperto. Anche questo è il bello del mio lavoro.